Viene dal Minnesota come Lindsey Vonn. Era amica di «sci club» con Mikaela Shiffrin, poi si sono perse, forse fraintese e ritrovate donne, leali, rivali. La sua specialità, data il bronzo in gigante agli ultimi mondiali e l’oro in parallelo di squadra nel 2023, potrebbe sembrare il tiro a segno ai grandi eventi, proprio come Julia Mancuso. Eppure Paula Moltzan non somiglia a nessuna delle sue colleghe americane o forse è un poco la sintesi di tutte. Anzi no: Paula da Minneapolis, a differenza, per esempio, della pluriolimpionica Julie di Palisades Tahoe ed al netto dei metalli belli lucenti che s’è presa nel giro di 2 anni, semmai, ha conquistato una laurea in quarti posti.

Di quelli che bruciano anche per pochi centesimi, ma che non le hanno mai tolto il sorriso, «Perché tanto si sa, i centesimi vanno e vengono e poi sono una ragazza del Minnesota, devo restare affabile». Quarta per tre volte agli ultimi Mondiali di Saalbach: nel team parallel, nel team combined, ma soprattutto in slalom (per 2/100 da Katharina Liensberger). Quarta nel team parallel olimpico di Pechino 2022 e in quello iridato a Cortina 2021. Dal 2020 il suo curriculum attende ancora l’acuto e conta tre podi in slalom ed altri tre piazzamenti fra gigante e parallelo, «Come 3M, le tre storiche M di Minnesota, mining and manufacturing company», scherza lei.
E che cosa poteva fare lei, se non aggiungerci… la quarta M, quel del suo cognome. C’era una volta Paula Moltzan, la ragazza che fece dello sci un roller coaster.
Oggi, a 31 anni, continua ad essere una forza della natura e la party soul della squadra perché il vero leader è non solo chi vince, ma anche chi sa perdersi, ricominciare e rialzarsi. «Si, questa definizione mi piace», approva lei, lo sguardo blu come i cieli di Buck Hill dove ha imparato, piccolissima, a sciare perché, nel fine settimana, con i fratelli non c’era molto altro da fare, «E lo sci, con mamma e papà maestri, era un po’ la nostra baby sitter». Anche allora, sciava come non ci fosse un domani e non importa che quel tracciato oggi non sarebbe non solo omologato, ma nemmeno preso in considerazione: «Poco più di 90 metri di dislivello e 300 metri di sviluppo».
Tu chiamala, se vuoi una baby. Ma da lì, Paula di strada ne ha fatta. La sua danza fra i pali somiglia più ad una haka di libertà che ad un walzer a stelle e strisce. E lei ne va fiera. Perché dietro a quel gesto, robusto e implacabile, si nasconde una carriera tutt’altro che scontata. «Non convenzionale» la definisce lei, quasi liquidando le fatiche di una gioventù sull’ottovolante.
E così ha iniziato quest’anno come aveva finito lo scorso, e cioè con una giostra di emozioni, dal podio di Soelden, seconda nell’opening sul Rettenbach, «Che forse non tutti si aspettavano», fino ad un podio sfiorato a Levi in slalom – ovviamente un quarto posto – passando per il quinto posto di Gurgl, fino ad una brutta botta con livido a Copper Mountain, su quella montagna di rame, dove sperava di lasciare il segno e, invece, ne ha portato a casa uno bello grosso sul fondo schiena nel giorno più nero del suo team, con il forfeit di Lauren Macuga per l’intera stagione e quello di AJ Hurt che dovrebbe durare, si spera, solo qualche settimana. «Avevamo appena provato un balletto nuovo», allarga le braccia.
Pensi, ma come? Lo sci è uno sport individuale. E, invece, per Paula giocoforza non è mai stato così. «Non potevo che essere una ragazza da due manche, perché, per me, lo sci è davvero stato un po’ una corsa in solitudine, ma anche un’avventura da vivere con le compagne». Il risultato? Non chiedetele di fare la velocista: pali, porte, gigante, parallelo, non avrai altro slalom all’infuori di questo. «Credo di non avere nemmeno più gli sci lunghi, adatti», ridacchia lei che, però, poi ammette, «Sono cresciuta col mito di Lindsey che veniva dalle mie stesse parti e con lo stesso storico allenatore, poi lei ha imparato a fare tutto, dallo slalom, alla velocità, financo al gigante. Addio e ritorno a 41 anni: incredibile».
Per Paula no, da subito le sue manche erano corte. E non solo per colpa di quella mini pista, un po’ come il lampionaio del Piccolo principe che accendeva e spegneva le luci sul suo asteroide che girava veloce intorno al sole. La sua vita è un po’ una supernova che si infiamma e sembra bruciare subito.
Giovanissimo astro nascente della squadra, vince e si mette in mostra nelle fila giovanili. Debutta prima in coppa del Mondo – è il 2012 – e poi in coppa Europa: «Da giovanissime credo anche di aver battuto Mika qualche volta: abbiamo fatto una bella fetta di strada insieme, abbiamo 11 mesi di differenza». Però una pare predestinata, l’altra destinata ad un giro più largo.

Dati i risultati e l’oro junior in slalom ad Hafjell in Norvegia nel 2015, il posto fisso nella squadra dei grandi sembra scontato. «Arruolata e felice, credevo di meritarmelo, credevo, insomma, di avercela fatta». Hybris alla greca sulle nevi americane, che intanto diventano quelle di Vail e del Colorado dove lei si sposta.
I risultati arrivano, però, poi qualcosa si incrina: i tempi dei «big five», da Bode Miller a Lindsey Vonn (parte prima), da Ted Ligety a Julie Mancuso a Daron Rahlves volgono al termine e anche oltreoceano si fanno i conti con il budget oltre che con risultati e talento.
Così, dopo quell’anno d’oro, Moltzan viene messa fuori squadra. In quel momento aveva all’attivo qualche buona curva, un fisico con grande potenziale ma forse non il rapporto giusto con la disciplina, al netto di una smisurata cazzimma per non darsi per vinta.
In Italia non sarebbe successo e forse Paula si sarebbe ritirata o magari tornata, chissà, a fare il maestro di sci come un piano B diventato urgente. In America, però, c’è un salvagente, anzi un salva-sogni chiamato college e Moltzan decide di riaprire i libri per non chiudere anche con lo sci. La scelta cade su Burlington, un college del Vermont che farà di «Killington la pista del destino e dei miei sogni, quella dove spero un giorno di vincere, però per lo sci senza porte e limiti dico Dolomiti e Svizzera!».
Una ossidoriduzione oggi e un allenamento domani, Moltzan salta sul treno universitario come quando si coglie una seconda chance: «Non credo che ci sia un unico percorso per realizzare i propri sogni, quindi non mi sento un esempio per nessuno, ma solo un testimone del fatto che un obiettivo si può raggiungere da prospettive diverse». Quando Paula riapre i libri, lo sa: «Avevo solo 3 anni di bonus per restare nel college». E Moltzan torna ad andare di fretta. Diventando subito reginetta del Ncca – National collegiate athletic association. La stoffa c’è, la tigna anche: «In fondo è stata una fortuna finire fuori squadra, perché ho capito che con lo sci era amore vero proprio respirando l’atmosfera collegiale della squadra universitaria ed ora me lo porto dietro anche in Coppa».
Fra i banchi e i gates, Moltzan aveva trovato anche l’amore: è Ryan Mooney che dal 2022 è diventato suo marito, ma, già da prima, come ex sciatore, si reinventa ski man, tecnico, chaffeur, psicologo, cuoco, insomma «mister Moltzan per servirla». «Anche se è bellissimo essere e viaggiare sempre insieme, non è facile «lavorare» con tuo marito e distinguere i momenti. Però abbiamo un equilibrio: lui crede in me e io ad un certo punto stacco la parte di atleta e resto solo sua moglie». In realtà pare che in cucina sia meglio lui: «Io però ho una fantastica ricetta per i biscotti al cioccolato».
Le difficoltà non sono finite, però. C’e’ da dimostrare di valere ancor una squadra e Moltzan lo fa: dopo un giro a vuoto a Killington, ci riprova l’anno successivo e, da allora, la Coppa ha cambiato marcia e Paula è tornata nei ranghi. «Fra 2019 e 2020 è stato durissimo perché dovevo e volevo ancora gareggiare per l’università, ma anche sfruttare il mio ritorno in Coppa». Tradotto, con eleganza, significa che Paula si è autofinanziata tutto con migliaia di euro raccolti da sola, fra amici e sponsor, per venire in Europa a gareggiare.
La palestra è la legnaia con fienile dei genitori e «Ho lavorato anche come istruttrice di rafting nell’attività di famiglia di mio marito: meglio mille volte buttarsi a capofitto in una libera». Il suo primo (e spesso unico) impiegato nel team era Rooney: solo più tardi sarà «regolarizzato» in squadra fra i ranghi dell’Us Team. Ancora oggi, a differenza di altri americani, Paula e Ryan non hanno una base sulle Alpi: la nostra casa è il van e va bene così. La nostalgia di casa può essere pesante per chi vive tutto in simbiosi: «Mi mancano fratelli e nipoti, i genitori, invece, per fortuna sono in pensione». E allora ogni tanto spuntano al parterre di una gara in Europa, «Ma poi mi avvisano, Ah guarda, ce ne andiamo a sciare qui o la, in bocca al lupo per le gare e ciao».

Questo sembra o forse deve essere l’anno della svolta: risolto il problema di una spalla dislocata, con una operazione lo scorso aprile, «A Soelden ho iniziato bene, è vero, speriamo adesso di continuare. Levi è un luogo magico: lo amo perché li si sente forse per la prima volta l’inverno. Adesso, però, si fa sul serio e sarà una corsa fino a febbraio e naturalmente i Giochi sono un pensiero dominante».
Moltzan non si nasconde, perché anche se è del Minnesota, «Dal Vermont ho preso l’orgoglio: so di aver fatto un bello step, prima crescevo ma non così. Spero sia la stagione della svolta, ma ho anche imparato a non dare più nulla per scontato». Di nuovo il primo motivo per questo step in avanti è un grazie collettivo, alla squadra: «Quando ti alleni con ragazze forti, cresci per forza».
Parole da dottoressa: «Ah no, non lo sono ancora: con gli studi non ho finito, ma dopo lo sci, ci sarà tempo». Parola di Paula, dal Minnesota con un sogno dopo l’altro e quella giostra chiamata vita che li collega tutti. Anche senza laurea e oro, però, un consiglio ve lo do: «Ad uccidere i sogni è più la paura che non un fallimento».






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