La memoria della neve non scolora. Restano le linee lasciate dagli sci, i respiri del pubblico, il brivido della notte che stringe la 3Tre come un anfiteatro naturale. Vent’anni non cancellano nulla, anzi affilano il ricordo.
Per Giorgio Rocca quel 13 dicembre 2005 non è una pagina da archiviare: è un punto incandescente della sua storia, il luogo esatto in cui un desiderio ha trovato forma.
La vittoria sulla pista di Madonna di Campiglio fu la più intensa della sua carriera: l’unica in Italia, la più cercata, la più mancata per pochi centesimi nelle due stagioni precedenti, la più capace di legarlo alla folla come non accadde altrove. Rocca lo ammette senza esitazione: quel successo apparteneva alla gente prima ancora che a lui, alla tradizione dei campioni che su quella neve avevano lasciato impronte impossibili da ignorare — Thoeni, Stenmark, Tomba — figure che trasformavano la 3Tre in un rito collettivo.
Essere parte di quella storia significò molto più di una vittoria: fu la terza stagionale, certo, ma soprattutto un dialogo con un pubblico che tornò a riconoscersi in un altro italiano capace di offrirgli emozione pura. La 3Tre ha questa forza: non concede anonimato. Pista breve, compressa tra i boschi, disegnata come una lama che taglia la montagna e scende fino al paese. Lo slalom, qui, non è solo tecnica: è ritmo, coraggio, ricerca della linea perfetta dentro un tracciato che increspa la pendenza un metro dopo l’altro, fino a diventare muro, poi volo, poi decisione. Il Canalone Miramonti — 610 metri di trappole luminose, 180 metri di dislivello, punte di pendenza che sfiorano il 60% — non perdona la distrazione e non premia chi esita.
Rocca conosce bene ogni sua piega, ogni tratto che accelera e inghiotte. Racconta i “segreti” della pista come si racconta un carattere: una progressione costante che chiede forza e lucidità, un dosso finale diventato simbolo, e quelle ultime porte che decidono tutto, perché solo con buona velocità si entra nel muro conclusivo con un margine di sopravvivenza.
La FIS ha confermato la 3Tre anche per il 2026. Ancora una volta notturna, ancora una volta due manche sotto una luce che toglie agli atleti la variabile più infida: la differenza tra chi scende con il sole e chi s’infila nella nebbia. L’illuminazione, migliorata, rende il gioco equo per tutti: visibilità piena, anche con la neve che cade.
La notte, poi, amplifica tutto: l’eco degli spettatori, l’adrenalina, la percezione televisiva. Un teatro perfetto per chi cerca la condizione olimpica, perché la gara del 7 gennaio arriverà a un mese esatto da Milano-Cortina — e chi vorrà misurare la propria forma non potrà trattenersi.
Essere l’ultimo italiano ad aver vinto su quella pista commuove Rocca più oggi che allora. A distanza di due decenni riconosce con lucidità quanto sia difficile tornare in cima a Campiglio, quanto quel traguardo continui a sfuggire agli azzurri. Non lo vive come un primato, ma come una staffetta sospesa: vorrebbe consegnarla a qualcuno pronto a riprendere il filo, magari proprio alla vigilia dell’Olimpiade.
La vittoria, in fondo, ha senso soltanto se apre spazio a un’altra.
Grande stile anche da apripista!
Il resto della sua storia scorre parallelo: le ventidue volte sul podio, gli undici trionfi, la stagione delle cinque vittorie consecutive, i Mondiali, le Olimpiadi, la scelta di portare il proprio talento oltre la competizione e fondare una Ski Academy che oggi conta 115 maestri tra Saint Moritz, Livigno, Crans Montana, Cervinia e Campiglio. Un modo per trasformare la tecnica in eredità, la disciplina in insegnamento, la neve in scuola permanente.
Vent’anni dopo, il ricordo non ha perso intensità. La pista nemmeno. La 3Tre continua a chiamare. E Rocca – nel modo silenzioso di chi ha già dato tutto sulla neve – attende che un altro italiano ci metta la firma, per chiudere il cerchio e aprirne uno nuovo.







Add Comment