Non serve conoscerlo per capirlo: bastava entrare in redazione. Scrivania ordinata, doppiopetto impeccabile, e sotto — invisibili ai più — gli scarponi ai piedi. Li teneva allacciati stretti, come per non dimenticare che il mondo vero comincia fuori, appena finisce la moquette dell’ufficio.
Ogni tanto qualcuno lo trovava così, concentrato a chiudere un fondo sull’economia, con la maschera sul naso e l’aria da gigante slalomista in apnea. Non portava occhiali: diceva che la lente più nitida era quella del sogno. E quando arrivava in redazione col casco, spiegava serio: «Mal di testa. Stamattina serviva questo.»
Nei giorni di agosto, in piena afa torinese, lo si è visto attraversare il cortile de La Stampa con la giacca a vento Kappa della Nazionale, lo sguardo fisso davanti a sé come chi immagina una pista sul selciato. Nessuno ha mai capito se stesse scherzando o provando una partenza.
Perché la passione, quella vera, non si addomestica. Si traveste da follia per passare inosservata.
Dopo quarant’anni di redazioni, prima alla Stampa, poi al Secolo XIX, infine al comando del gruppo NEM, Luca Ubaldeschi ha deciso di cambiare mestiere.
Non per accettare un incarico al New York Times, ma per cedere alle lusinghe della neve, che gli ha messo sul tavolo la proposta più irrinunciabile di tutte: non il ruolo di direttore, ma di sciatore.
Ha firmato senza pensarci due volte — con un bastoncino invece che con una penna.
La clausola principale? Contratto a tempo indeterminato, ferie illimitate e stipendio in emozioni nette.
È stato assunto dallo sci, e non esiste redazione più severa né più generosa: la montagna non concede sconti, ma ogni giorno ti regala un titolo nuovo.
La passione, del resto, fa fare follie.
C’è chi cambia città, chi si reinventa mestiere, chi si perde per ritrovarsi.
Lui ha semplicemente deciso di cambiare altitudine.
Dopo quarant’anni di scadenze, colonne e titoli a nove colonne, ha scelto di tornare all’unica notizia che non passa mai: la prima neve.
Ora può svegliarsi senza agenda e capire dal colore del cielo se sarà giornata da sci Race Carve SL o da curve larghe.
Può scendere senza dover scrivere, e scrivere senza dover scendere.
Ha lasciato la tastiera del computer per quella degli scarponi, l’inchiostro per la neve fresca, il rumore della redazione per il silenzio delle piste all’alba.
Lo abbiamo incontrato l’11 novembre, nel salone elegante della presentazione della stagione dell’Alta Badia.
Era il suo primo giorno di libertà, o meglio — di servizio permanente effettivo sulle nevi.
Seduto su un divanetto, gambe incrociate, sorriso sereno, lo sguardo perso oltre la finestra.
Mentre Andy Varallo raccontava la magia della Gran Risa, Luca non ascoltava: viaggiava.
Ogni parola sembrava una curva, ogni dato una linea d’ingresso nella Gran Risa.
Accanto a lui la moglie e la figlia, tra orgoglio e lieve preoccupazione.
Non l’avevano mai visto così distante e felice insieme.
Di solito, a un evento stampa, prendeva appunti con la precisione di un cronista di razza.
Questa volta, invece, nel taccuino c’era solo una linea tondeggiante, una scia disegnata a matita — una serpentina perfetta, la traccia della sua nuova vita.
Da oggi, anzi, da ieri, Luca potrà finalmente sciare per sé.
Potrà guardare la montagna con occhi di libertà, non di dovere.
Potrà fermarsi a un rifugio senza scrivere niente, solo per ascoltare il rumore dei bicchieri e della neve che si scioglie.
Potrà ridere di fronte a una pista chiusa, e tornare lo stesso il giorno dopo, perché tanto la montagna non scappa.
Potrà camminare senza cronometri, respirare senza deadline, vivere senza “mandare in pagina”.
Sarà un allievo di ciò che conosceva già: la cultura della neve, la storia dei paesi che l’hanno cresciuto, la lingua gentile degli uomini di montagna.
Tutto ciò che prima raccontava per mestiere, ora lo assorbirà per piacere.
E se un giorno qualcuno lo vedrà in città, con la maschera in fronte e il giaccone imbottito, non si preoccupi.
Non è nostalgia.
È solo che lo sci — quello vero — non ti lascia mai.
Ti assume.
A tempo indeterminato!






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