Dalla “casacca” del Comitato trentino, dopo avere indossato quella azzurra, alla pista Aloch, dal cancelletto al parterre. Matteo Guadagnini, uno dei tecnici più esperti dello sci italiano, cambia prospettiva: non più allenatore, ma responsabile della pista che è il cuore tecnico delle Piste Azzurre in Val di Fassa. Non un addio, ma un cambio di direzione. La passione resta la stessa, solo il punto di vista è diverso.
Matteo, dopo tanti anni di Nazionale e poi al Comitato Trentino, cosa ti spinge a cambiare strada?
La passione per questo lavoro non mi manca, anzi. Ma il sistema è diventato esasperato, a tutti i livelli. Anche tra i giovani. C’è poca formazione e troppa fretta di vincere. A dieci, dodici anni si salta la crescita, si bruciano le tappe. Ragazzi che fino a 14 o 16 anni vincono tutto, poi si spengono. Perché? Perché si è voluto arrivare troppo presto. Allenatori e genitori spingono per dimostrare qualcosa, e alla fine gli atleti si consumano. A sedici anni sono già stanchi, fisicamente e mentalmente.
Parli di un problema culturale, non solo tecnico.
Sì. I ragazzi oggi hanno tutto: video, materiali, cronometri, supporti. Ma non hanno tempo.
E lo sci, come la montagna, richiede tempo. Quando si inizia troppo presto con sci performanti, nevi artificiali e pendenze esasperate, il corpo non regge. Gli infortuni aumentano, e non solo in Coppa del Mondo. È la logica del “tutto e subito” che crea una fragilità collettiva.
È questo che ti fa cercare un ruolo diverso?
Sì. Dopo tanti anni, sento il bisogno di guardare lo sci da un’altra angolazione. Resto nell’ambiente perché lo amo, ma voglio ritrovare equilibrio. La proposta della pista Aloch mi arriva al momento giusto: resto sul campo, ma con un ruolo costruttivo, di servizio.
Conosco bene la Fassa e la sua gente, conosco la pista e chi ci lavora. E poi lì passano tutti: giovani, nazionali, team stranieri. È un punto d’incontro straordinario.
Essere responsabile dell’Aloch significa entrare nel cuore delle Piste Azzurre. Che sensazione ti dà?
Mi piace, perché è un progetto che sento mio. Ora però lo vedo dall’altra parte. So cosa serve a un tecnico e a un atleta per lavorare bene: tempi, spazi, sicurezza. Il mio obiettivo è offrire tutto questo ai gruppi che arrivano in valle. L’Aloch funziona, ma può crescere ancora.
C’era già un progetto per portare l’impianto duecento metri più in alto, con due curvoni da gigante: diventerebbe una pista di qualità ancora migliore. È una pista che ha un’anima, ma va seguita giorno per giorno.
Questo nuovo incarico ti avvicina anche ai comitati e ai team giovanili. Come pensi di gestire questo rapporto?
Conosco tutti: responsabili, direttori tecnici, allenatori. Credo che la mia esperienza possa servire soprattutto per dare consigli pratici. L’Aloch è impegnativa: bisogna usarla con intelligenza. C’è una variante più semplice per le categorie minori, mentre la parte centrale resta dedicata ai gruppi di alto livello. Il mio compito sarà soprattutto quello di garantire sicurezza, organizzazione e rispetto degli spazi.
A proposito di sicurezza, che tipo di lavoro ti aspetta?
La pista è già molto ben coperta, ma si può sempre migliorare. Lavorerò soprattutto sui tracciati: oggi non si possono più mettere giù cinque giganti contemporaneamente.
Serve più attenzione, perché anche una caduta innocua può creare situazioni di rischio per gli altri. E poi c’è la squadra: io, un responsabile della sicurezza, due tecnici per i tracciati e il soccorso fisso. Gli addetti alla neve sono Graziano, Giovanni e Franco, tre persone che conoscono ogni metro dell’Aloch.
Quando aprirete?
Tra il 4 e il 6 novembre, a seconda delle temperature. Siamo pronti: abbiamo testato tutto il sistema di innevamento e appena arriva il freddo si parte. La macchina è rodata, manca solo l’inverno.
C’è qualcosa che, da allenatore, avresti voluto trovare in una località di allenamento e che ora vuoi realizzare all’Aloch?
Direi una struttura completa: palestra, ski-room, area fisioterapia, spazi tecnici tutti nello stesso luogo. Nei grandi centri internazionali come Vail è tutto lì, a pochi passi.
In Italia sarebbe bellissimo, ma non è facile: i costi sono altissimi e la burocrazia rallenta.
La Val di Fassa aveva un progetto simile, ma non è mai decollato. Sarebbe un salto di qualità per tutti – atleti, tecnici, squadre – ma servono visione e investimenti.
Il tuo nuovo ruolo ti permette di guardare lo sci da un’altra angolazione. Cosa vedi, oggi?
Vedo un sistema che ha bisogno di ritrovare misura. Lo sci moderno è diventato esasperato: materiali sempre più reattivi, velocità più alte, margini più stretti. A volte sembra che tutto debba avvenire al limite, ma è proprio lì che si paga il prezzo. Serve più equilibrio, più ascolto. E lo dico anche per i ragazzi che crescono: non bisogna solo insegnare a vincere, ma a restare in piedi.
Dopo tanti anni in pista, cosa ti motiva ancora?
La passione. È la stessa di quando ho cominciato, solo che oggi la vivo in modo diverso. Mi piace pensare che il mio lavoro possa servire a far crescere chi arriva dopo, a creare le condizioni perché un allenatore o un atleta possano lavorare meglio. La pista è come un campo: se la curi bene, restituisce tutto. Ed è questo che voglio fare, restare vicino alla neve, ma con un passo più tranquillo.
Matteo Guadagnini non lascia lo sci: ne cambia solo la prospettiva. Da allenatore a responsabile di pista, continua a disegnare linee e spazi, ma questa volta per tutti. Perché, come in ogni grande carriera, arriva un momento in cui non serve più correre: basta far sì che gli altri possano farlo meglio di te.
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