Non serve leggere la quarta di copertina per capire di che pasta è fatto Max Cassani. Basta incrociarlo una mattina qualsiasi: barba da “ho dormito poco”, zaino da “potrei partire adesso”, e negli occhi quell’aria di chi non si fida del mondo se non dopo averlo guardato dall’alto, almeno da una cresta facile.
Max non parla: accenna. Come fanno quelli che hanno passato abbastanza ore nel vento da sapere che le parole pesano meno dell’aria.
E quando decide di scrivere, lo fa con quella sobria follia dei giornalisti di montagna: gente che ha più chilometri nelle gambe che nella collezione di tagliandi mensili del giornale.
Il suo nuovo libro — “Rialzati e cammina. Dieci storie di salvezza grazie alla montagna (e una playlist)”, edito da monterosa Edizioni per la Collana Gli Ellebori — non è un libro. È un bivacco: ci entri per ripararti, ne esci un pochino diverso.
Dieci storie. Dieci persone. Dieci cadute che non hanno fatto notizia, perché le cadute vere non finiscono mai su un titolo.
Rotture, smarrimenti, dolori afoni. E poi, da qualche parte, la montagna che compare. Non come bacchetta magica — Max ci tiene: i miracoli li lasciamo ai santini — ma come strumento. Un attrezzo, come i ramponi o la lampada frontale: serve se lo usi, non serve se lo guardi.
Cassani racconta senza indulgere, senza psicologia da discount, senza quella retorica dell’“alta quota che ti purifica” da cui fugge come da un temporale sul Monviso. Lui osserva. Ascolta. Riporta. E in quel riportare c’è la vita nuda e cruda di gente che non ha mai chiesto niente a nessuno, se non di poter camminare ancora un po’.
C’è chi ha passato un’adolescenza storta come un ramo spinto dal vento e ha trovato la propria linea — finalmente retta — nel trail running.
C’è chi la montagna la detestava, poi una malattia gli ha tolto tutto tranne il passo: e allora camminare è diventato un modo per rialzarsi.
C’è chi vive in pianura ma ha la bussola che punta sempre a Nord: la segue, prima piano, poi con la determinazione dei pellegrini veri.
E c’è chi, nel lutto, ha scoperto che il dolore, se lo porti con lentezza verso una vetta, pesa un po’ meno.
Non ci troverai nomi noti. Nessun influencer di viaggio, nessun atleta da copertina. Solo persone normali, di quelle che incontri al bar sotto la funivia e a cui non dai due lire finché non ti raccontano da dove arrivano e scopri che lì dentro c’è un romanzo.
Max li raccoglie come si raccolgono le storie buone: con delicatezza, senza disturbare. E soprattutto senza sconti. Perché la montagna non ne fa, e questo libro nemmeno.
Ogni capitolo è un piccolo campo base. Ogni parola è un passo. Ogni passo è un tentativo di capire come si fa a rimettersi in piedi quando il mondo decide di prenderti di mira.
E poi c’è la playlist. Perché ogni risalita ha un ritmo, ogni salita un respiro. La musica, qui, è la corda che lega lettore e protagonisti: tira piano, ma tira.
Alla fine chiudi il libro e senti quella strana vertigine buona: come quando guardi il sentiero percorso e pensi «Ah, quindi ce l’ho fatta anche oggi». Max Cassani non ha scritto un libro sulla montagna. Ha scritto un libro con la montagna. Che è diverso. Perché qui non si racconta la vetta: si racconta il cammino. Il rialzarsi. Il ricominciare.
E in fondo, diciamolo: la montagna non salva nessuno. Ma ti dà lo spazio per salvarsi. E questo, a volte, basta per tornare a camminare.






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