Le polemiche non nascono sempre da una decisione. Talvolta prendono forma nel modo in cui quella decisione viene raccontata.
La vicenda della portabandiera azzurra per i prossimi Giochi Olimpici rientra in questa seconda categoria. E richiede un chiarimento, non per alimentare un caso, ma per ricondurre i fatti al loro ordine naturale: quello delle procedure istituzionali, non delle manovre personali.
Nei giorni successivi all’annuncio, una parte della narrazione mediatica ha attribuito a Federica Brignone un ruolo diretto nell’esclusione di Sofia Goggia dal ruolo di portabandiera. Una ricostruzione che, alla verifica dei passaggi reali, non trova riscontro.
L’origine della vicenda è lineare. Il contatto non è partito dall’atleta, né da una sua iniziativa personale. Il confronto è stato avviato in ambito istituzionale, con una domanda posta a Federica Brignone: valutare la possibilità di tentare un recupero in vista dell’appuntamento olimpico, alla luce dei progressi registrati.
Una domanda legittima, posta nel contesto di una programmazione che guarda avanti e che impone valutazioni prospettiche. La risposta non è stata una richiesta, né una rivendicazione, ma una disponibilità prudente, priva di certezze e senza alcuna pretesa di ruolo.
Da quel momento in poi, la decisione è maturata esclusivamente all’interno delle sedi competenti, sulla base di valutazioni autonome. Nessun passaggio ha coinvolto dinamiche personali tra atlete, né tantomeno azioni volte a condizionare altre candidature.
L’inversione del racconto
Il nodo non riguarda la scelta finale. Il nodo riguarda l’inversione del racconto. Una procedura istituzionale è stata letta come una telefonata risolutiva. Una disponibilità condizionata è stata trasformata in una volontà di esclusione. Il soggetto attivo e quello passivo sono stati scambiati, generando una narrazione che ha caricato di significati impropri un passaggio formale.
In questo corto circuito, il fatto perde la sua natura e diventa interpretazione. Il silenzio responsabile viene scambiato per colpa. La complessità viene sacrificata a favore di un racconto semplificato, più facile da consumare, ma meno aderente alla realtà.
Un elemento dovrebbe bastare a riportare la questione su un piano corretto: nessuna delle atlete coinvolte ha rilasciato dichiarazioni pubbliche contro l’altra. Non prima, non dopo la decisione.
Non è una casualità. Chi vive lo sport a questo livello sa che certi ruoli non si chiedono, non si contendono, non si negoziano tra pari. Federica Brignone e Sofia Goggia rappresentano due storie diverse, due carriere straordinarie, due modi legittimi di essere campionesse. Metterle artificiosamente in contrapposizione significa tradire i fatti e impoverire il racconto sportivo.
Questa vicenda dice qualcosa che supera il singolo episodio. Riguarda il confine sottile tra informazione e interpretazione, soprattutto quando il racconto sportivo cede alla tentazione della scorciatoia emotiva. Riguarda la responsabilità di distinguere chi decide da chi viene chiamato a rispondere. Rimettere i fatti al centro non equivale a difendere qualcuno.
Equivale a difendere il metodo. E il metodo, in questo caso, conduce a una conclusione semplice:
la scelta della portabandiera è stata istituzionale, non personale. Ogni altra lettura nasce dal rumore, non dalla realtà






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