“La vita si comprende solo all’indietro, ma si vive in avanti.” scriveva Søren Kierkegaard. È una frase che oggi pesa come un macigno, perché di fronte alla morte di Matteo Franzoso, a soli venticinque anni, siamo costretti a guardare indietro e a chiederci cosa non abbia funzionato, pur sapendo che il suo tempo non tornerà più. Matteo era un ragazzo solare, sorridente, gentile, cresciuto sciisticamente sulle piste del Sestriere e arruolato nelle Fiamme Gialle. Aveva talento, dedizione, una carriera che stava prendendo forma e, soprattutto, un futuro davanti a sé.
La sua vita si è spenta in una clinica di Santiago del Cile, dove era stato ricoverato dopo la caduta durante un allenamento sulla pista di La Parva. La dinamica non è chiarissima: un salto affrontato male lo ha portato a un atterraggio imperfetto. Stava cercando di ritrovare la posizione dopo essersi sbilanciato, ma in quel momento una quasi inspiegabile spigolata lo ha proiettato dalla parte opposta della curva che avrebbe dovuto affrontare. Le reti B di protezione non hanno saputo fermare la sua corsa, che si è interrotta soltanto contro il palo di una staccionata di legno, qualche metro più in là. Quel tipo di barriera è presente perché a oltre 3.000 metri il vento è frequente e serve a trattenere la neve sulla pista. Una sequenza crudele che nessuno avrebbe mai voluto leggere, e che invece siamo costretti a raccontare con il cuore appesantito dal dolore.
Questa tragedia mette in discussione ciò che lo sci credeva di avere consolidato.
Perché se un atleta giovane, ben preparato, seguito da uno staff qualificato e protetto da un apparato di sicurezza considerato a norma può comunque morire, allora non basta appellarsi alla fatalità. La discesa libera è lo spettacolo più affascinante del nostro sport, ma anche il più spietato. A oltre centoventi chilometri orari ogni minima incertezza può trasformarsi in un dramma. Tuttavia, negli anni, tanto è stato fatto: piste omologate, reti sempre più performanti, protocolli di soccorso immediati, materiali di ultima generazione. Eppure non è bastato. La domanda allora è inevitabile: quanto è davvero accettabile il rischio nella discesa libera?
Scrivere che si è trattato di destino non è sufficiente.
Non consola, non spiega e, soprattutto, non aiuta a prevenire. Lo ha espresso con lucidità Norbert Elias, sociologo che ha studiato lo sport come fenomeno sociale: “Il rischio non è un difetto dello sport, ma la sua essenza. E proprio per questo deve essere governato, mai lasciato al caso.” Ed è proprio qui che sta il cuore del problema. Perché la pista di La Parva era stata omologata da tempo, due settimane prima aveva ospitato gare FIS regolari, tutto era formalmente a posto.
Ma la sicurezza non è un bollino da apporre su un documento, non è un concetto statico: è un processo da rinnovare continuamente, da verificare ogni giorno, con la consapevolezza che la vita degli atleti dipende da ogni singolo dettaglio.
Con questo non vogliamo dire che vi siano state negligenze o leggerezza nella preparazione del tracciato, anche perché il direttore di pista – un tecnico italiano apprezzato da tutti – è sempre stato riconosciuto per la sua scrupolosità nei confronti della sicurezza. Le indagini sveleranno se ci sono state mancanze tecniche da parte di qualcuno.
Quella di Franzoso non è purtroppo un’eccezione isolata. Meno di un anno fa, il 28 ottobre, lo sport italiano aveva pianto la scomparsa di Matilde Lorenzi, appena 19enne, caduta durante un allenamento in Senales. Da quella tragedia immane era nato un grido che avrebbe dovuto scuoterci fino in fondo. Ma quel richiamo straziante, evidentemente, non si è trasformato in una risposta collettiva.
Anche lei era nata sciisticamente al Sestriere, e le due famiglie si conoscevano bene: una vicinanza che rende ancora più lancinante il dolore, come se un destino beffardo avesse scelto lo stesso luogo d’origine per due giovani vite spezzate a pochi mesi di distanza. Due nomi, due storie, due sorrisi che non avremmo mai voluto associare a un addio.
Il paradosso della discesa libera è qui, in tutta la sua evidenza.
È la disciplina che più di ogni altra emoziona e tiene col fiato sospeso gli appassionati. È il regno del coraggio, del gesto eroico, del limite che viene sfidato e superato. Ma è anche la disciplina che più di ogni altra porta con sé l’ombra del rischio, che non può essere eliminato del tutto. È questa contraddizione a renderla unica, ma anche a imporci un interrogativo scomodo: fino a che punto è giusto accettare che lo spettacolo valga il prezzo di una vita? Forse la risposta non potrà mai essere definitiva. Forse il fascino stesso della velocità contiene in sé una dose di pericolo inevitabile. Ma una cosa è certa: il mondo dello sci non può permettersi di archiviare tragedie come questa senza pretendere cambiamenti, senza porsi domande radicali.
Matteo lascia dietro di sé risultati che raccontano una carriera in crescita. Non era ancora arrivato al vertice, ma stava costruendo con pazienza e determinazione un percorso che poteva portarlo lontano. Soprattutto, lascia il ricordo di un ragazzo semplice e autentico, capace di portare il sorriso nello spogliatoio come in pista, di farsi volere bene per ciò che era, non solo per ciò che faceva sugli sci.
E allora il vero modo per onorarlo non può essere soltanto celebrarne i risultati o custodirne la memoria con affetto. Il miglior tributo che il mondo dello sci può rendere a Matteo è avere il coraggio di interrogarsi, di andare oltre le giustificazioni, di pretendere più responsabilità. Perché dire che era tutto “a norma” non basta, se alla fine ci ritroviamo a piangere un ragazzo di venticinque anni. Forse non esiste una sicurezza assoluta, forse lo sci, soprattutto nella velocità, porta con sé un margine di rischio che non potrà mai essere eliminato del tutto. Ma questo non significa rassegnarsi. Significa semmai impegnarsi di più per ridurre quel rischio, ridisegnare tracciati, innovare materiali, ripensare modalità di allenamento, pretendere la presenza di un TD Fis anche durante gli allenamenti, avere il coraggio di mettere in discussione ciò che fino a ieri sembrava intoccabile.
Quelle parole di Kierkegaard tornano allora con forza: la vita si comprende solo all’indietro, ma si vive in avanti. All’indietro guardiamo per comprendere cosa sia successo a La Parva. In avanti dobbiamo vivere per fare in modo che non accada di nuovo. Matteo Franzoso resterà nel cuore della sua famiglia, dei compagni, degli amici, degli appassionati che lo hanno seguito. Ma il suo ricordo deve restare anche nella coscienza di chi ha il compito di proteggere gli atleti. Non per puntare il dito, ma per cambiare. Perché lo sport che amiamo non può permettersi di chiedere in cambio la vita dei suoi figli.
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