Non serve scavare troppo nella memoria. Il ghiacciaio dello Stelvio non è un luogo, è un ritorno.
Claudia Giordani ci è salita di nuovo. Con lei Wilma Gatta, Maddalena Silvestri, Manuela Fasoli. E Chicco Cotelli, allenatore e custode di un tempo che nessuno riesce più a dimenticare.
Sono arrivati lassù come si torna in un vecchio libro, aprendo le pagine senza paura di trovare se stessi. Ad accoglierli, Umberto Capitani, il padrone di casa, l’uomo che ha fatto del ghiacciaio una creatura viva. Uno che non comanda la neve: la ascolta.
Si sono arrampicati a bordo di un mezzo cingolato, salendo tra nebbia e vento. Hanno guardato le stesse piste di allora, le stesse pieghe di luce. Nulla è rimasto uguale, eppure tutto lo era. Le linee d’allenamento cancellate e riscritte mille volte, le curve che bruciavano nelle gambe, gli urli di Cotelli che tagliavano l’aria come fruste di volontà.
A un certo punto si sono fermati. Hanno consegnato un dono, un sasso piatto — come il tempo, quando smette di scorrere. Sopra, inciso:
“Caro Stelvio, per sempre nel cuore.
Con riconoscenza, Claudia Giordani e le sciatrici della Valanga Rosa 1974–1985.”
E in calce, una firma del futuro: 2025, Anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai.
Quel sasso ora è appeso all’ingresso della funivia. Sta lì come una preghiera laica. Chi passa lo guarda, qualcuno lo legge, qualcuno no. Ma tutti, anche solo per un istante, sentono che quella pietra pesa più di qualunque trofeo.
Perché il ghiacciaio non è un museo. È un cuore che batte piano, e a volte si spezza.
Le ragazze di allora lo sanno bene. Hanno dato alla neve il meglio di sé, e in cambio hanno ricevuto il privilegio della memoria.
Sul ghiacciaio dello Stelvio il vento non parla: racconta. E oggi, per una volta, lo fa con la voce di chi ha amato.
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