Lo sci alpino vive un paradosso: disciplina tecnica e complessa, ma spesso chiusa al sapere scientifico. Servono approcci trasversali e la figura del Metodologo per affrontarne le criticità
Sebbene la vita di ogni giorno ci ponga costantemente di fronte al sapere scientifico, esistono ancora ambiti in cui tale aspetto della cultura umana ha un accesso precario; uno di questi è il mondo dello sci alpino. Quando si parla di sci, si fa riferimento a un movimento umano innaturale, complesso, svolto in un ambiente ostico e strettamente correlato (e dipendente) da fattori tecnici e tecnologici altamente evoluti.
Nonostante tale contesto implichi la necessità di un confronto continuo con chi opera abitualmente nell’ampio spettro del mondo scientifico, si tende invece a basarsi su capacità pratiche e operative, spesso anche scientificamente monotematiche. Questo agire, forse un po’ arcaico, impedisce di confrontarsi con ruoli e competenze nei quali – magari – alcuni aspetti che sfuggono nel ristretto ambiente in cui si opera sono ben noti a chi si occupa di scienza con conoscenze interdisciplinari, multilaterali o, come si dice oggi, trasversali.
Un simile atteggiamento non sembra derivare da ostilità nei confronti dello studio e della ricerca, ma crea un paradosso evidente: si parla, si lavora e si scrive in un ambiente estremamente tecnico e tecnologico come quello dello sci, che resta però chiuso e affidato quasi esclusivamente a una conoscenza ed esperienza empirica, quindi monotematica. Tale paradosso non è affatto «alla luce del sole»; potremmo anzi definirlo un aspetto «inconsapevolmente sconosciuto», raramente considerato, tanto da sembrare inesistente, ma che giorno dopo giorno mostra con chiarezza le sue criticità.
Un esempio pratico: un giovane atleta manifesta difficoltà tecniche che, data la sua età, non sono ancora tali da richiedere interventi drastici. Spesso, però, l’istintività del soggetto porta a interpretare quelle esecuzioni discutibili come «stile» o come una particolare interpretazione tecnica, con affermazioni del tipo: «è istintivo»… «si sa adattare». Se non arrivare addirittura precocemente a stabilire troppo presto che l’atleta «è un talento» o «è talentuoso». Col tempo, però, tali peculiarità possono trasformarsi in difetti difficilmente correggibili. Oppure i difetti vengono associati a una «particolarità» e si cercano altrove soluzioni che non arrivano.
Non si tratta, quindi, di agire sui noti «marginal gains», ma di comprendere che sciare è complesso e che la risoluzione di un errore non può limitarsi all’iperspecializzazione di un singolo ruolo o competenza. Questo approccio, peraltro, non riguarda solo lo sci: è un errore diffuso ovunque si usi la parola «complessità» come scudo per non rispondere alle domande.
Agire nella complessità significa invece confrontarsi con più realtà e, soprattutto, con figure capaci di operare trasversalmente, unendo conoscenze speculative a capacità pratiche in più settori, e di connettere diversi ruoli per trovare una risoluzione comune al problema, senza rifugiarsi in termini fuorvianti come «complessità», «difficoltà» o «non è così semplice».
La non semplicità esiste, ma richiede un processo organizzativo che coinvolga più competenze mirate alla risoluzione del complesso. Nel mondo dello sport, questo ruolo è ormai definito: lo Sport Scientist in ambito anglosassone, o Metodologo in italiano. A lui il compito di guidare la sfida scientifica alla complessità.






Add Comment