Professione Montagna

La fase 2 e la macchia di una «sentenza» assurda

All’alba del 25 maggio, quando scrivo queste note e chiudo l’ultimo numero di pM della (a dir poco problematica…) stagione 2019/20, gli impianti di risalita dei comprensori sciistici devono restare ancora chiusi come è stato scritto alla lettera h) dell’articolo 1 del DPCM del 17 maggio che conferma la stessa misura già assunta l’8 marzo e ribadita il 26 aprile.

Poche, stringate e inquietanti parole, praticamente una sentenza: «Sono chiusi gli impianti nei comprensori sciistici». Ufficialmente, con l’ultimo dei tanti decreti del Presidente del Consiglio prodotti durante la devastante crisi sanitaria ed economica provocata da un invisibile virus nato in Cina e migrato in tutto il mondo, il 18 maggio si è «riaperta» l’Italia dopo due mesi abbondanti di stretta quarantena e di guerra al contagio che sono costati 30 mila morti, un crollo di circa il 10% del PIL e di circa il 30% della produzione industriale, la perdita del lavoro di migliaia di persone, il collasso delle attività commerciali e di interi settori tra i quali, in primis, il turismo.

Riaprire e ripartire era assolutamente necessario per non rischiare di trasformare l’infarto socioeconomico provocato dal Covid 19 in un coma irreversibile.

Il virus non è scomparso e, in attesa del vaccino, la ripresa delle attività e il relativo ritorno a situazioni di rapporti ravvicinati comporta certamente una quota di rischio da affrontare con prudenza e con il buon senso delle persone responsabili.

Ma restare ancora fermi più a lungo sarebbe stato catastrofico, anche a fronte del fatto che le diverse misure di sostegno a lavoratori, imprese e famiglie non sono arrivate ( e non arrivano?) mai o  troppo tardi, incagliate nelle perenni secche della burocrazia e di procedure farraginose.

Per rianimare il paziente-Italia colpito dal doppio shock sanitario ed economico più di altre Nazioni europee, attivare la mitica «fase 2» era assolutamente indispensabile.

Per farlo, in una babele di  contraddizioni, di conflitti istituzionali e di  prescrizioni talvolta così cervellotiche da rasentare il ridicolo, si sono dettate regole di comportamento per la tutela della sicurezza anti contagio che hanno interessato praticamente tutte le categorie, tutti i luoghi e tutti gli aspetti della vita sociale, dalle aziende ai negozi, dai bar ai ristoranti, dalle estetiste alle piste (ciclabili), dai trasporti agli orti (urbani), dalle parrucchiere alle acquasantiere.

In attesa di piscine e palestre (per non parlare della scuola, rimandata a settembre) hanno potuto riaprire praticamente tutti, naturalmente mettendosi la mascherina e tenendosi a un metro di distanza.

Tutti, tranne «gli impianti di risalita dei comprensori sciistici» che però non servono soltanto lo sci in inverno ma funzionano, seppure a ranghi ridotti, anche in estate.

Si è parlato soprattutto di mare e di spiagge, ovviamente, di metri lineari e di metri quadrati tra ombrelloni e lettini; molto meno di montagna, che pure porta un contributo non trascurabile a quel 13% di PIL attribuito al turismo e dove gli impianti di risalita sono il motore di un comparto economico che significa la vita di una filiera turistica articolata in tante componenti e il benessere di interi territori.

Perché «gli impianti di risalita dei comprensori sciistici» devono rimanere chiusi?

Perché si temono i famosi assembramenti che evidentemente non vengono nemmeno ipotizzati nelle metropolitane, o sui treni dei pendolari, o sulle battigie con i piedi a mollo?

O perché, forse, si coltiva ancora l’osceno pregiudizio che tra febbraio e marzo aveva impiccato gli impiantisti sull’accusa di essere degli untori che diffondevano il virus svolgendo la propria funzione di esercenti di pubblico servizio?

Le deleghe alle Regioni nella gestione della fase 2 consentiranno probabilmente ai governatori di trovare il modo per superare il diktat ma con il rischio di creare anche in questo come in molti altri casi una disparità sconcertante di comportamenti tra i territori regionali.

E resta comunque questa specie di stigma sull’attività dell’impiantistica funiviaria che si spera venga rimosso almeno formalmente in qualche prossimo DPCM pensando soprattutto al prossimo inverno, la stagione elettiva degli impianti di risalita.

Il virus non sarà ancora scomparso, le misure per la sicurezza sanitaria saranno ancora necessarie e le incognite sono molte, più delle solite affrontate e risolte negli ultimi anni.

Come sempre non si sa se nevicherà o non nevicherà dal cielo, quali saranno le condizioni metereologiche, quali le temperature.

Quest’anno si aggiungono i timori per verificare quanto abbia inciso la pandemia sui flussi turistici dall’estero, quanto freni ancora sul piano psicologico il tarlo della paura.

Ci mancherebbe che restasse in vigore e creasse problemi quella lettera h dell’articolo 1 del DPCM del 17 maggio. Gli impiantisti hanno proposto come rispettare criteri di sicurezza nell’accesso agli impianti: più del contingentamento nelle cabine e sulle seggiovie che provoca (come si era visto al stagione scorsa) code  e intruppamenti ai tornelli si propone, già per l’estate, di «bilanciare l’affluenza con la portata, favorendo il più possibile la fluidità e la costante mobilità. In assenza di code, infatti, il riempimento dei veicoli si riduce automaticamente», come si legge nel comunicato che ANEF ha diramato già il 7 maggio e dove si assumeva l’impegno per altre misure (distanziamento fisico, obbligo di mascherine e guanti durante il trasporto, areazione di cabinovie e funivie, igienizzazione).

Per il momento la risposta del Governo è stata la sentenza del 17 maggio. Non esiste peggior sordo di chi non vuole ascoltare.