Professione Montagna

La parte del turismo invernale nel turismo delle regioni alpine

Pubblichiamo alcune parti  essenziali del capitolo che il professor Macchiavelli ha scritto per il XXIII rapporto generale sul turismo italiano curato da IRSS-CNR.

Il movimento turistico trainato dalla pratica degli sport invernali e legato alla fruizione della «montagna bianca» sta reggendo tutto sommato bene il mercato.

È necessario studiare e mettere in atto strategie per programmare bene il domani, variare le offerte, esaltare il tema della sostenibilità ambientale, valutare ciriticità (il gap tra località grandi e picole).

Ma nel complesso «i numeri» dicono che,  per la montagna, l’inverno è e potrà continuare ad  essere in futuro la stagione privilegiata di un turismo quantomai ricco e vitale.


La continuità di questo capitolo del Rapporto, che viene riproposto ormai dall’inizio degli anni 2000, pur con alcune varianti, impone di riprenderne gli obiettivi e la metodologia.

Lo scopo è innanzitutto quello di fornire al lettore un aggiornamento sull’andamento del turismo montano, in particolare di quello alpino, sia a livello annuale che relativamente alla stagione invernale e conseguentemente all’andamento del turismo della neve.

La disponibilità di dati e informazioni più che decennali ci consente peraltro di cogliere i più significativi elementi di novità, che non sono pochi, e quindi di sottolineare tendenze e orientamenti di politica turistica di un comparto tradizionale del turismo, che tuttavia va assumendo connotazioni sempre nuove.

Come di consueto, dunque, il capitolo si articola in tre parti: la prima relativa all’analisi congiunturale del turismo nelle regioni e province alpine, la seconda focalizzata sul turismo della neve, con uno approfondimento sull’ultima stagione sciistica nei maggiori comprensori alpini italiani, e l’ultima che si propone di cogliere i trend significativi e offrire spunti per una politica turistica della montagna italiana.

Si consolida la ripresa del turismo alpino

Il Grafico 1 offre una panoramica sull’andamento del turismo alberghiero nelle regioni alpine nel corso degli anni 2000, attraverso i dati che ci vengono offerti annualmente da ASTAT, l’Ufficio Statistico della Provincia di Bolzano. Proponiamo un’interpretazione di sintesi dell’andamento complessivo in un periodo ormai piuttosto lungo (14 anni).

● Il grafico mostra una condizione di sostanziale staticità per la maggior parte delle aree fino al 2011, con una tendenza positiva nelle regioni più turistiche e meno montane, quali Salisburghese (+ 13%) e Baviera (+8%), e in quelle dove la vacanza in montagna è prassi maggiormente consolidata, soprattutto Alto Adige (11,3%), Trentino (+7,5%) e Tirolo (5,4%). Si tratta comunque di incrementi piuttosto modesti se confrontati con l’andamento del turismo nel suo insieme, che non raggiungono nel migliore dei casi (Salisburghese) il 2% annuo. Negativa è stata invece la tendenza in Ticino (-4,6%), nei Grigioni (-4%) e soprattutto nel Bellunese (-8,8%)

● Nel periodo successivo (2011-2015) aumenta ulteriormente il divario tra regioni forti e regioni deboli. Salisburghese (+24,6% dal 2004), Baviera (+16,3) e anche Voralberg (15,4%) incrementano ulteriormente le loro presenze, ma, come si è detto, si tratta di regioni che offrono un turismo diversificato, dove la vacanza montana tradizionalmente concepita rappresenta solo una delle modalità di permanenza e dove la vacanza invernale ha un ruolo poco rilevante. Le tre regioni con una più chiara offerta di soggiorno montano estivo e invernale (Tirolo, Alto Adige e Trentino), che da sole assommano a quasi il 60% delle presenze totali delle aree considerate, mantengono le posizioni faticosamente raggiunte (Alto Adige) o le incrementano leggermente (Tirolo e Trentino). Per contro le aree turisticamente minori proseguono nel loro trend negativo che le porta a consistenze decisamente minori di quelle dell’inizio degli anni 2000; nel 2015 il Ticino aveva perso l’11,2% delle presenze rispetto al 2004, i Grigioni il 15,2%, il Bellunese il 15,6%, la Valtellina il 5,9%.

● L’ultimo triennio (2015-18) è un triennio positivo per tutte le aree come mostra la Tab.1, che riporta anche la quota di presenze di ogni regione sul totale e la permanenza media del 2018. Nessuna regione presenta un segno negativo e solo l’area svizzera di San Gallo, che peraltro pesa meno dell’1% sul totale, evidenzia una variazione molto modesta di presenze (+1,7%). Dopo un decennio, anche le aree che avevano perso significative quote di presenze turistiche sembrano aver avviato un percorso di ripresa, che è proseguito negli ultimi tre anni. L’incremento si è verificato sia nelle presenze, che negli arrivi, ma con un divario a favore di questi ultimi decisamente vistoso ovunque, il che conferma un ulteriore calo della durata media del soggiorno, peraltro già in atto negli anni precedenti.

Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo fenomeno, certamente non nuovo, ma che offre spunti per interpretare i cambiamenti in atto nel turismo montano. Ricordando che qui ci si riferisce soltanto al turismo alberghiero, constatiamo che le differenze nella durata media del soggiorno nelle varie regioni sono piuttosto significative. In generale possiamo considerare due gruppi di regioni in relazione alla durata della permanenza: quelle che si attestano attorno ai 2-2,5 giorni e quelle che raggiungono i 3,5-4 giorni. La differenza è notevole sotto il profilo statistico e rivela la presenza di un diverso tipo di turismo maggioritario. Nel primo caso prevale una componente di turismo di visita, leisure ma in alcuni casi anche business (in Baviera ad esempio), nel secondo prevale certamente il turismo di vacanza e laddove la permanenza è più alta (Alto Adige, Trentino e Tirolo) rivela un’offerta di soggiorno vacanziero pressoché esclusivo. Tuttavia la durata media del soggiorno è diminuita in modo considerevole anche in queste regioni. Il Graf.2 considera soltanto le regioni con una permanenza media superiore a 3 giorni e dunque con un’offerta più orientata alla vacanza e mostra inequivocabilmente che il periodo di soggiorno è sceso quasi ovunque di circa un giorno, ovvero del 20-25% circa. Questo sta ad indicare che il soggiorno è sempre meno indotto dalla vacanza tradizionale di lunga durata che prevedeva 1 o 2 settimane, o comunque che a questa vacanza «principale» si aggiungono frequenti soggiorni brevi che concorrono ad abbassare la media della permanenza.

Non si fa fatica a mettere in relazione questa tendenza con le molteplici opportunità di brevi soggiorni che la montagna tende sempre più ad offrire; per la fruizione di attività open air, per eventi sportivi o ricreativi, per puntate eno-gastronomiche, e persino per visite culturali, un tempo del tutto ignorate in una montagna che si identificava essenzialmente con il paesaggio in estate e con lo sci in inverno. Sono proprio queste le nuove motivazioni alla frequentazione dellmontagna e sono proprio queste le ragioni della recente ripresa che abbiamo documentato. Basti pensare al fenomeno mountain bike e più in generale alla diffusione dell’uso della bicicletta, grazie anche alla disponibilità di quelle con pedalata assistita. La mountain bike si è rivelata negli ultimi anni un potente richiamo per i giovani e la possibilità di scendere su percorsi, più o meno dedicati, ha favorito un maggiore impiego degli impianti di risalita, che un tempo erano in larghissima parte chiusi, perché utilizzati soltanto per gli sciatori. D’altro canto non vi è oggi valle o area che non si organizzi per una proposta enogastronomica e, attraverso di essa, rafforzi l’identità territoriale che sempre più viene considerata dal turista una buona motivazione per una visita. Analogamente si moltiplicano gli eventi; si pensi solo a quante aree montane offrono oggi corse non competitive in bici o a piedi. Ciascuna di esse attrae, anche solo per un week end, un buon numero di partecipanti, a cui si aggiungono spesso famigliari e amici. Il turismo montano viene quindi rafforzato grazie ad un allargamento delle motivazioni che inducono la visita, quelle stesse motivazioni che tendono a spaziare su un arco temporale meno concentrato e quindi ad ampliare l’arco stagionale. Se questo vale per tutte le aree, è però evidente che laddove l’offerta è maggiormente organizzata ed offre molteplici attrazioni e servizi, il tempo di permanenza finisce per essere più alto che nelle aree concorrenti; è il caso dell’Alto Adige (4,3 gg.), del Trentino (3,9 gg. e del Tirolo (3,8 gg.).

Il turismo alpino italiano e l’internazionalizzazione delle presenze

I dati fin qui considerati riguardavano il turismo alberghiero, oggetto di analisi di ASTAT, Ufficio Statistico della Provincia di Bolzano. L’approfondimento successivo riguarderà le sole province alpine italiane e farà riferimento alla totalità delle strutture ricettive.

Ci soffermiamo su tre aspetti: la consistenza della domanda nelle diverse province, la variazione delle presenze nell’ultimo decennio e il livello di internazionalizzazione.

La Tabella 2 fornisce il quadro delle maggiori province /regioni alpine in termini di arrivi e di presenze turistiche.

Il dato più significativo è che quasi l’80% delle presenze delle regioni da noi considerate sono concentrate nelle province di Bolzano e di Trento; la prima con una consistenza quasi doppia della seconda; con l’andamento positivo di queste due province e il calo di altre negli ultimi decenni, questa polarizzazione del turismo verso l’area dolomitica si è ulteriormente accentuata.

In queste due aree la durata media del soggiorno è decisamente più alta delle altre, come già avevamo visto a proposito delle presenze alberghiere, che in quasi tutte le aree pesano dal 70 all’80 %, con la sola eccezione di Belluno dove l’incidenza si ferma al 55%.

L’andamento delle presenze complessive nell’ultimo decennio (Grafico 3) riflette quello già visto nel quadro internazionale limitatamente ad alcune province. Il Bellunese è l’unica area che rimane decisamente al di sotto del livello di 10 anni fa, con un calo di quasi il 20% delle presenze; va sottolineato tuttavia che questo crollo si è verificato totalmente nell’extralberghiero, e prevalentemente negli alloggi privati, dal momento che le presenze nell’alberghiero sono rimaste più o meno le stesse. Tutte le altre province hanno comunque incrementato le loro presenze nel decennio con punte massime del 22% a Trento e del 20% a Bolzano e con un incremento del 13 % circa sia in Valle d’Aosta che in Valtellina.

La ripresa maggiore è comunque avvenuta soprattutto negli ultimi anni, come evidenzia la Tabella 3; in precedenza infatti alcune aree avevano fatto registrare cali (oltre al Bellunese, la Valle d’Aosta e la montagna piemontese), mentre le aree più forti avevano mantenuto un trend moderatamente positivo. Il triennio più recente, come si vede, è stato positivo ovunque eccetto che nel Bellunese, sebbene il forte incremento della provincia di Sondrio sia imputabile, almeno in parte, ad un problema di rilevazione statistica dei dati.

Ma il fenomeno più evidente ed anche più significativo per spiegare l’evoluzione dei comportamenti del turista in montagna, è dato dal livello di internazionalizzazione. La montagna italiana è sempre stata una modalità di vacanza prevalentemente orientata al mercato domestico con la sola eccezione della provincia di Bolzano, che da sempre accoglie quote molto consistenti (in alcuni momenti assolutamente prevalenti) di turisti tedeschi, per ragioni culturali e linguistiche. Il Grafico 4 mostra come l’incidenza del turismo straniero sia cambiata nel corso dell’ultimo quindicennio in tutte le province alpine, anche in quelle dove l’incidenza era minore e dove la consistenza del turismo ha mostrato segni di declino o di stagnazione, come ad esempio nel Bellunese o in Val D’Aosta e Valtellina. Questo dice che in parte il turismo straniero ha sostituito quello italiano. L’Alto Adige è la provincia che registrato la variazione minore, proprio perché le presenze straniere erano già elevatissime precedentemente; l’incremento non è dovuto quindi al mercato tedesco ma ai nuovi mercati europei, in particolare a quelli dell’Est Europa.

Il fenomeno è ben evidenziato dalla Tabella 4. Il tasso di incremento degli stranieri nell’ultimo quindicennio è stato molto elevato in tutte le province, con incrementi che vanno dal 39.7% della provincia di Bolzano al 90% delle montagne Piemontesi2. Per contro le variazioni degli italiani sono state nel migliore dei casi molto modeste, con eccezione della montagna piemontese, favorita dall’evento olimpico del 2006. La performance migliore è del Trentino con il 17,2% in 14 anni, pari all’1,2 % medio all’anno, ma sono ben 3 le province che hanno fatto registrare un calo della clientela italiana; tra queste è particolarmente vistoso il decremento della provincia di Belluno che supera il 40%.

La stagione invernale del turismo della neve

L’inverno 2018/19 non è stata una delle stagioni migliori per il turismo della neve (cfr. Professione Montagna, 2019) Come è accaduto ormai più volte nel corso degli ultimi anni, la neve è arrivata tardi, dopo le vacanze natalizie e questo ha condizionato non poco l’andamento del turismo che trova proprio nelle vacanze natalizie il cuore dell’intera stagione; inoltre quest’anno Pasqua è caduta molto tardi, quando ormai la stagione sciistica era conclusa ed è quindi mancato un importante momento vacanziero. A ciò si è aggiunto il vento in alcune regioni, che ha limitato il funzionamento degli impianti e la fruibilità delle piste. Ma pur in un contesto sempre più problematico sotto il profilo climatico, ciò che si constata è che il mercato tende sempre più ad adattarsi ai cambiamenti in atto e che quando si trova di fronte ad un’offerta ricca e diversificata di proposte e di servizi non rinuncia alla vacanza montana invernale modificando al più il proprio comportamento e i propri programmi. D’altro canto la neve programmata è ormai presente pressoché ovunque e soprattutto ha raggiunto un buon livello di qualità tanto da non far rimpiangere, se non per l’atmosfera del paesaggio, quella naturale. Tutto questo porta a dire che l’annata non è stata complessivamente negativa, anche se ovviamente vi sono state annate migliori, soprattutto per alcune regioni (cfr.Macchiavelli 2019). L’analisi che segue e che ci porta ad analizzare i principali comprensori sciistici delle Alpi ci consentirà di cogliere alcune linee di tendenza e anche alcune differenze territoriali.

La graduatoria dei primi 30 comprensori sciistici italiani

Proponiamo, come di consueto da qualche anno a questa parte, la classifica dei Top 30, ovvero la graduatoria dei primi 30 comprensori sciistici italiani, in base ai passaggi sugli impianti di risalita. Il numero complessivo dei passaggi dei primi 30 comprensori è vicino ai 300 milioni (Tab.5) e rispetto allo scorso anno fa registrare un incremento del 2%, che, alla luce delle non brillanti condizioni di innevamento, deve considerarsi un risultato assolutamente positivo, anche perché si aggiunge a quello dello scorso anno quando si era rilevato un incremento medio del 3,6% Naturalmente la graduatoria non si modifica in modo vistoso da un anno all’altro, ma qualche significativa differenza rispetto allo scorso anno c’è e vale la pena evidenziarla:

a) In primo luogo notiamo che vi sono alcuni comprensori che hanno fatto registrare aumenti molto consistenti di passaggi; osservandone le caratteristiche notiamo che si tratta di località tendenzialmente in alta quota, come Livigno (+26,7%), Cervinia (+23%), e La Thuile (+17,5%). In tutti i casi queste località avevano registrato consistenti cali l’anno precedente; mentre negli anni con abbondanza di neve gli sciatori tendono a distribuirsi tra tutte le località, negli anni di scarso o ritardato innevamento, come questo, si riscontrano solitamente performance migliori nelle località in quota, essendo gli sciatori costretti a convergere nei comprensori maggiormente innevati per poter sciare. Incrementi consistenti si riscontrano per lo stesso motivo anche nei comprensori di Adamello Ski (+8%), dell’Alta Pusteria (+7,9%) e di Madonna di Campiglio (+7,4%).

b) Condizione diametralmente opposta si riscontra in alcuni comprensori più piccoli e più marginali rispetto alla centralità delle maggiori e più organizzate aree montane. Lo vediamo a Mondolé Ski nelle Alpi cuneesi (-18,9%), a Bardonecchia (-16,6%), nell’area del Civetta (-9,3%) e a S.Martino di Castrozza (-5,3%).

c) Per effetto di queste variazioni si riscontrano un paio di cambiamenti significativi nel gruppo delle Top 10 ovvero delle località più importanti: Madonna di Campiglio (con Pinzolo, Folgarida e Marilleva) diventa, dopo Val Gardena-Siusi, il secondo comprensorio sciistico italiano per numero di passaggi, superando il volume della Val Badia, che diventa ora la terza; analogamente Livigno guadagna due posizioni passando dalla settima alla quinta posizione. I primi 10 comprensori rappresentano oggi oltre il 65% dei passaggi totali delle Top 30. Considerato che oltre a questi 30 comprensori classificati ve ne sono altri, che sono ragionevolmente più piccoli, possiamo rilevare la forte concentrazione delle attività sciistiche sulle prime 10 stazioni, a fronte di un’ampia offerta e distribuzione su comprensori mediamente piccoli. E’ realistico ritenere che questa concentrazione sulle località più in quota e più organizzate tenderà ad aumentare.

d) Il dato sui passaggi riflette l’utilizzo degli impianti di risalita, mentre quello dei primi ingressi riflette i visitatori giornalieri del comprensorio, Il dato relativo al numero di passaggi per ogni ingresso è fortemente dipendente dalle caratteristiche dell’area sciabile e quindi può presentare forti differenze tra un’area e l’altra; dove è basso potrebbe dipendere dal fatto che il comprensorio non offre molte interconnessioni tra le piste e quindi possibilità di variare, ma potrebbe dipendere anche dal fatto che le piste sono più lunghe o che gli sciatori non si fermano a lungo nell’area. Colpisce, ad esempio, l’anomalo ed elevato numero di passaggi (quasi 42 per ingresso) nell’area di Arabba-Marmolada, dovuto al fatto che si tratta di un passaggio obbligato per poter effettuare il percorso della Sella Ronda (giro sciistico attorno al Gruppo del Sella), ambìto da tutti gli sciatori dell’area.

La Tabella 6 ci consente un confronto dell’offerta sciistica regionale e della consistenza della domanda in ciascuna regione. Innanzitutto emerge che il 62% dei passaggi su impianti avvengono in Trentino Alto Adige, anche se rispetto allo scorso anno la quota si è lievemente contratta, per effetto di un maggiore incremento di passaggi in Valle d’Aosta (+10,3%) e Lombardia (+14,5%); si noti che nella scorsa stagione entrambe queste regioni avevano fatto registrare un calo rispetto a quella precedente, soprattutto per effetto di diverse condizioni nivologiche. Il calo maggiore quest’anno si è invece verificato in Piemonte (-7%) e Veneto (-2,6%). I passaggi medi per comprensorio indicano che i comprensori in Alto Adige (14,4 ml. di passaggi medi per comprensorio) e in Trentino (11,1 ml.) sono mediamente più ampi e offrono maggiori possibilità di variare piste e impianti pur con un unico skipass di ingresso; mediamente più piccoli sono i comprensori del Piemonte e della Valle d’Aosta dove hanno circa 5,5 milioni di passaggi medi.

Considerazioni conclusive

Il positivo andamento della stagione 2018-19, pur in condizioni nivologiche diverse rispetto alla precedente, consente di guardare con fiducia al futuro della montagna italiana. La neve resta la variabile più significativa nell’attrazione della montagna invernale, anche se, a fronte di scarsità di neve naturale, gli sciatori hanno ormai cominciato ad abituarsi alla neve programmata. Nel corso degli ultimi decenni la qualità dell’innevamento artificiale è di gran lunga migliorata e questo fa sì che lo sciatore, pur in un contesto meno attraente, perché caratterizzato da un paesaggio meno bianco, tenda a non rinunciare totalmente alla pratica sciistica. Lo dimostra il fatto che in anni di neve scarsa anche località di media e bassa quota hanno comunque difeso le loro posizioni. Ma il buon andamento del turismo montano non lo si vede solo dalla stagione invernale. Le presenze tendono ad aumentare ovunque, anche in aree dove la neve non ha un ruolo fondamentale, e inoltre si avverte una certa tendenza a frequentare la montagna anche nelle stagioni intermedie; è un fenomeno più evidente nelle aree meno forti, dove la centralità delle stagioni centrali non è tale da comportare la totale chiusura dei servizi ricettivi e complementari, necessaria anche per l’indispensabile manutenzione. Si tratta naturalmente di soggiorni brevi, perlopiù indotti dal riconoscimento che vi sono nuove ragioni, oltre a quelle tradizionali, per avvicinarsi alla montagna. E questo contribuisce ad abbassare la durata media dei soggiorni che, come abbiamo visto, si riducono continuamente. In questo contesto generalmente positivo sul piano quantitativo, proviamo a sottolineare alcuni dei fenomeni e delle problematiche più significative della evoluzione del turismo montano.

a) La diversificazione delle attività

Il maggiore interesse che la montagna sembra suscitare è fortemente legato al fatto che la sua attrattività non si lega più solo ai due fattori principali di attrazione, la natura e il paesaggio in estate e lo sci da discesa in inverno, ma spazia sempre più in una varietà di motivazioni, sportive, ricreative e anche salutistiche che portano a riconoscere il frequentatore della montagna non più soltanto nell’appassionato di escursioni o di attività sciistica, ma in un poliedrico ricercatore di interessi diversi o in un intenso appassionato di una specifica attività che lo impegna in gran parte dei mesi dell’anno; la mountain bike, la bici da strada, la corsa in montagna o la canoa nei torrenti, sono solo alcuni degli esempi che interpretano questo rapporto, dove la natura tipica dell’ambiente alpino, è sì il contesto ambientale prescelto, ma non la ragione essenziale per la pratica. A questo si aggiungono le molte nuove ragioni di attrazione dell’ambiente alpino che gli operatori, diversamente dal passato, tendono sempre più a valorizzare e a farne ragione di incontro con il turista (gastronomia, cultura, identità del territorio, wellness, ecc.). Tutto questo comporta per le destinazioni alpine una sempre maggiore attenzione e formazione verso l’analisi dei mercati e verso i processi di innovazione; il rischio è infatti quello di lasciare all’interpretazione casuale o intuitiva la soddisfazione di un mercato che si amplia e si diversifica.

b) L’internazionalizzazione del turismo montano

Il sempre maggior peso della domanda turistica internazionale è fenomeno che riguarda ogni forma di turismo; nelle aree montane tuttavia sorprende maggiormente, perché tradizionalmente il turismo si è sempre caratterizzato per una domanda principalmente domestica, salvo la nota eccezione dell’Alto Adige. Occorre invece tener conto di un ruolo tutt’altro che marginale dei mercati esteri e conseguentemente delle implicazioni che questo apporta alla gestione del turismo e alle caratteristiche del prodotto.

I turisti stranieri degli ultimi due decenni provengono in larga parte dai paesi dell’est europeo e si concentrano in prevalenza nella stagione invernale; questi stessi paesi si stanno sempre più attrezzando per offrire una proposta interna (cfr.Vanat 2019). Una prima problematica è conseguente quindi alla capacità che le nostre località alpine sapranno dimostrare nel mantenersi competitive nei confronti dell’offerta emergente di questi mercati; anche perché una parte di questa domanda estera è intermediata da Tour Operator, i quali impongono condizioni economiche piuttosto stringenti. Un’altra problematica è connessa alle diverse condizioni gestionali che si impongono con una domanda dalle caratteristiche talvolta molto diverse rispetto a quella domestica; vi è certamente un problema di lingua, oltre che di usi e costumi, ma vi è soprattutto una diversa famigliarità con la pratica dello sci che spesso mette in discussione la compatibilità dei diversi mercati presenti e impone condizioni gestionali delle aree sciistiche che ne tengano conto.

c) Grandi e piccoli comprensori

Dal momento che vi è una sempre maggiore tendenza del turista a praticare diverse attività e comunque a cambiarle frequentemente, ne consegue che le località turistiche devono attrezzarsi per far fronte a queste esigenze; la tendenza non potrà dunque che vedere le destinazioni turistiche nel tentativo di ampliare la propria gamma di offerta di servizi e proposte (Kampf & Hunziker, 2014). Questo è ciò che si verifica soprattutto nelle grandi destinazioni dove la quantità di turisti è maggiore e dove anche le risorse a disposizione sono maggiori. Condizioni del tutto diverse sono invece quelle che caratterizzano le piccole località turistiche dove le risorse sono decisamente più scarse anche in termini di innovazione e sensibilità ambientale e culturale (Pechlaner & Zeni 2006). Nel momento in cui il prodotto tende a moltiplicarsi e ad articolarsi il tentativo di imitare le grandi destinazioni offrendo una gamma ampia di opportunità non può più rispondere alle esigenze della domanda, che avverte più di prima le differenze di qualità, oltre che di varietà dei prodotti, per cui la piccola località finisce per non essere competitiva. L’emergere di nuovi fattori di attrazione impone pertanto all’offerta di riorganizzarsi in relazione ad essi e di perseguire possibili strategie di specializzazione, anche se presenta dei rischi e necessita di condizioni di gestione che vanno accuratamente perseguite. E’ innanzitutto un rischio il lasciare che la scelta della specializzazione o caratterizzazione sia definita al di fuori di un progetto complessivo per tutto il territorio nel quale la località si inserisce o, peggio ancora, sulla base di pure intuizioni di qualcuno o di proposte di investimento esterne. Di qui dunque la necessità che la località turistica, ancorché piccola e dotata di minori risorse rispetto ad altre, faccia riferimento ad una Vision complessiva sul proprio ruolo all’interno del territorio in cui si situa e si doti di una Policy che consente di perseguire i propri obiettivi.

La sostenibilità è una questione di soglia

Il tema della sostenibilità viene ripetutamente evocato e frequentemente rivendicato come una prassi diffusa, anche se non altrettanto trova riscontro nella realtà. Questo anche perché nella sensibilità dei turisti e nei frequentatori della montagna è maturata una consapevolezza del tutto assente qualche decennio fa in tema di sostenibilità ambientale. L’industria dello sci inoltre è uno dei “sorvegliati speciali” data la forte infrastrutturazione che comporta. Tralasciamo pure le posizioni di quell’ ambientalismo rigido che sottovaluta il valore economico e occupazionale dell’industria dello sci per le comunità che vivono in montagna; altrettanto miope è tuttavia la posizione di chi ancora fatica a riconoscere l’inutilità di interventi che vanno a sacrificare porzioni di un territorio alpino, ormai molto scarso, senza essere in grado di dimostrare i benefici economici e occupazionali che ne deriverebbero per la gente di montagna, o senza valutare gli effetti di un cambiamento climatico che in qualche caso potrebbe non essere compensato dall’innovazione dell’uomo. Ecco perché il vero problema oggi è quello di individuare “quale è la soglia”; quella soglia, cioè, entro la quale può ancora essere utile intervenire con azioni di completamento dell’infrastrutturazione e oltre la quale è decisamente deleterio per la sostenibilità ambientale. E’ evidente che una risposta univoca non può esistere, perché per sua natura è una risposta che va cercata nello specifico di ogni situazione; vi sono molti strumenti di analisi e di valutazione (capacità di carico, analisi di impatto ambientale, valutazioni ambientali, analisi costi benefici), spesso più usati nella ricerca accademica che nei processi decisionali, ma si tratta di strumenti quantitativi per loro natura rigidi, che stentano ad adattarsi alle esigenze di flessibilità dei processi decisionali. Ciò che più sembra mancare è la considerazione e il rispetto di criteri che consentano di raggiungere il momento decisionale con ragionevole condizione di equilibrio nel rapporto tra costi e benefici dell’operazione, quali:

● una ben organizzata Governance della destinazione turistica. Perché senza una governance non vi è un obiettivo comune e condiviso, non vi è programmazione strategica del territorio e non vi è quell’indispensabile coordinamento tra gli stakeholders che è necessario per una scelta consapevole di rispetto ambientale;

● la programmazione strategica, come esito di un processo condiviso che nel turismo avviene solo su base decisionale volontaria.

● la sostenibilità economica, ovvero la consapevolezza che il progetto di intervento sul territorio deve in primo luogo essere in equilibrio economico (di mercato) e deve produrre benefici occupazionali per la comunità locale.

● la valorizzazione della comunità locale quale presupposto che consente di affrontare la questione della soglia della sostenibilità con maggiori opportunità di successo.


About the author

Andrea Macchiavelli

Andrea Macchiavelli è docente di Economia del Turismo all’Università di Bergamo. È membro attivo dell’AIEST (Association Internationale d’Experts Scientifiques du Tourisme). È membro del Comitato Scientifico della rivista Turistica. Si occupa prevalentemente di turismo montano.